BIOGRAFIA

Giorgio Rossi nasce a San Piero a Sieve il 13 gennaio 1892 da Enrico e Marianna Nencioni. Dei suoi anni giovanili, dei suoi studi, del suo carattere, della sua famiglia si ignora praticamente tutto.
All’Accademia di Belle Arti è allievo di Antonio Bortone, artista di cultura ottocentesca, sensibile al retaggio patriottico risorgimentale. Da Bortone, ritrattista accurato, apprese tutte le tecniche della scultura ed ereditò il disprezzo per la facile fama.
Nel 1906, a soli 14 anni, partecipa all’Esposizione Annuale della Società di Belle Arti di Firenze.
Nel biennio 1912-1913 si riaffaccia sulla stessa scena con alcune opere. Nel 1914 espone a Montecatini nell'ambito della mostra annuale organizzata dalla Società di Belle Arti. Nel 1915 invia Pegaso alla Permanente di Milano. Si tratta di mostre non del tutto accademiche: le opere sono in vendita, con un prezzo ben indicato sul catalogo. Rossi è ormai un artista dalla fisionomia riconoscibile.
A ridosso della Prima guerra mondiale, Rossi è vivace, intraprendente. Non si limita a lavorare come artista, ma si cimenta nella poesia, come risulta da alcuni suoi versi pensosi, gravi, riemersi dalle sue carte.
Nel 1916 è premiato con la medaglia d’argento per la scultura in marmo La Sieve dalla Società di Belle Arti e l’anno seguente vince il primo premio all’Esposizione del soldato organizzata a Palazzo Davanzati. Nel 1918 riceve un prestigioso riconoscimento dall'Accademia delle Arti del Disegno di Firenze che lo inserisce nei ruoli degli “Accademici onorari”. Nel 1920 espone alla Mostra d’Arte Sacra a Venezia nonché riceve commissioni private per opere, alcune di grande impatto monumentale, da collocare nei cimiteri. In questo periodo Rossi inizia a diradare il numero delle mostre alle quali partecipa e cerca un lavoro nella scuola per dare una base economica affidabile alla propria esistenza. Per questo motivo, nel 1921 partecipa al concorso per “aggiunto” di ornato e per la plastica della figura all’Istituto di Belle Arti di Firenze.
Nel 1924 è presente alla IV Mostra Nazionale di Belle Arti di Brescia. In quello stesso anno, a Firenze, porta un Redentore al Concorso Duprè. Partecipa poi alla Mostra per il Premio Principe Umberto alla Permanente di Milano nel 1925. Il 10 gennaio 1926, “Lo Scultore e il Marmo”, pubblicazione trimestrale con redazione a Milano, pubblica un ampio rendiconto dell’esposizione. Quella dell’artista viene menzionata come “una delle opere migliori di tutta la Mostra”.
Nel 1927 riceve la commissione del Monumento ai Caduti per Borgo San Lorenzo. Il suo referente è il conte Pecori Giraldi, che si reca più volte nel suo studio per verificare l’andamento del lavoro. Forte dell’interesse suscitato, Rossi invia il bozzetto della “Sieve” alla Camera dei Deputati, come vediamo da un biglietto di ringraziamento. Il 1927 è anche l’anno del definitivo inserimento nella scuola. Dopo una supplenza annuale all’Istituto Tecnico Galilei di Firenze come assistente alla Scuola di disegno, entra nei quadri docenti della R. Scuola Artistico-Industriale per l’Alabastro di Volterra. Il suo lavoro viene apprezzato al punto da convincere il Consiglio d’Amministrazione della Scuola a conferirgli una gratifica di 500 Lire per “la diligenza dalla S.V. usata nell’impartire l’insegnamento”.
Inevitabilmente, l’alabastro irrompe nel mondo creativo di Rossi, che ne ricava opere notevoli per qualità d’invenzione e per grazia compositiva.
In un’edizione della Fiera dell’Artigianato di Firenze, vince il Primo Premio per una scultura in alabastro raffigurante una delicata Madonnina.
Nel 1930 partecipa alla XVII Biennale di Venezia, edizione resa celebre dalla qualità degli artisti invitati, con la scultura Testa di uomo grasso.
Firenze resta il principale sfogo per mostrare il proprio lavoro. L’Associazione Nazionale degli Artisti, con sede in Piazza Pitti, lo invita con una certa regolarità alle mostre che annualmente organizza.
Comanducci lo contatta nel 1935 per inserirlo nel Dizionario biografico degli Scultori Italiani dall’Ottocento ad oggi e lo prega d’inviargli foto di opere significative e d’indicargli “quali libri, giornali, riviste, hanno pubblicato scritti relativi a Lei e alla Sua attività artistica”. Nel 1936 partecipa nuovamente alla Biennale di Venezia con una terracotta dal titolo Giovane donna.
Nel 1940 il Ministero dell’Educazione Nazionale lo sovvenziona con una somma di 3000 Lire.
Nel secondo dopoguerra, la produzione dell'artista ebbe i connotati di un diario intimo. La scuola, che gli aveva dato la sicurezza economica, cominciò ad avvertirla come una noiosa prigione. Cercò di trovare un'alternativa a Volterra chiedendo di essere trasferito in altre sedi, nelle quali si illudeva di trovare un clima artistico e umano più congeniale. Non vide coronato il suo modesto sogno. L'insegnamento si estinse lentamente, lasciandolo in grado di tornare a Firenze, dove poté aprire uno studio in Via Della Robbia. Nel suo isolamento, riuscì a dare vita ad alcune delle sue opere migliori, nelle quali si librava la sua fantasia finalmente disinibita e disincantata. Il pubblico fiorentino poté conoscere le sue sculture solo superficialmente, grazie alle partecipazioni di Rossi alla Fiera dell'Artigianato. Si spense nel 1963.

COMMENTO CRITICO

UNA STOICA COERENZA. GIORGIO ROSSI SCULTORE di Stefano De Rosa

Da Antonio Bortone, scorbutico maestro che lo guidò nei primi anni della formazione, Giorgio Rossi ereditò una complessa vocazione artistica.
Apprese a considerare la scultura come un esercizio nobile, al quale sacrificare ogni altra esigenza umana. Da lui, imparò a misurarsi con il marmo, il bronzo e con ogni altra materia. Da lui, infine, ricavò l'idea dell'artista come borghese discreto, inserito nella società, a suo modo impegnato in ambito civile, ma rinunciando alle pose dannunziane e ai compiacimenti decadentistici che le avanguardie del primo Novecento stavano lanciando con forza.
Rossi aggiornò il patrimonio giovanile grazie alla potente sferzata imposta, al suo universo mentale, dalla scultura di Libero Andreotti.
Gli si aprirono le porte della tradizione. La storia dell'arte gli si palesò come un forziere magico, dal quale attingere senza inibizioni.
Le sue scelte linguistiche e la sua profonda umanità lo portarono a una riconsiderazione critica dell'Umanesimo.
La sua scultura divenne un prolungato atto di fiducia verso un tempo storico e una verità spirituale che la modernità non doveva ignorare.
Con Innocenti, Boninsegni e altri ancora, Giorgio Rossi rappresentò una linea di toscanità scultorica nel segno di un quattrocentismo polemico e dialetticamente difeso e spiegato.
Rossi si opponeva tanto al revival medioevale quanto all'acquisizione acritica del Rinascimento.
La strada da seguire per una modernità ragionevole e non trasgressiva, era quella che passava attraverso lo studio di Donatello e dei maestri del '400.
In virtù di tale impostazione, Rossi non si ficcò nell'angolo dei ritardatari, dei cocciuti, rissosi eversori delle avanguardie, ma lavorò con coerenza, raggiungendo notevoli risultati nelle occasioni in cui si presentò al giudizio del pubblico e della critica.
La sua arte raggiunge i livelli più alti nei ritratti. Con grande sensibilità, l'artista riusciva ad impossessarsi dei segreti custoditi dai suoi modelli.
Era sempre in viaggio, mentre modellava, assorto nella ricostruzione di una verità interiore, intento a rimandare, attraverso un volto, il senso o l'aspettativa di una vita.
La nobiltà dell'uomo era in lui un valore certo, molto prima che Ugo Ojetti ne facesse il fulcro di una posizione estetica.
Nel dopoguerra, la sua arte non ebbe dei significativi scarti qualitativi. Al contrario, i tempi difficili ed eroici della ricostruzione trovarono in lui una sponda artistica ideale.
Il progetto di dar vita ad un nuovo Umanesimo, che come alcuni maestri storici considerava la sola realtà culturale in grado di aggregare ed armonizzare posizioni ideologiche diverse, fu presto superato dai fatti storici, che richiedevano, anzi imponevano, prese di posizione drastiche e rigidi codici di comportamento.
Non per questo l'arte di Giorgio Rossi vacillò. Egli continuò a lavorare, aggiungendo l'alabastro ai materiali usati ed amati, in uno sforzo continuo ed eroico.
La sua coerente abnegazione lo condusse ad una qualità espressiva che raramente si trova negli artisti del '900.